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La storia della psichiatria, come sappiamo, è costellata di abusi: il manicomio, la lobotomia e l’elettroshock, il trattamento sanitario obbligatorio, l’obbligo della cura, rappresentano un filo rosso che attraversa i tempi e getta un’ombra sinistra sulle istituzioni che la rappresentano.
La rivoluzione basagliana è stata resa necessaria perché la pratica dell’internamento forzato non si era interrotta, pur a distanza di duecento anni dal momento in cui il medico Pinel, maturato alla luce delle idee progressiste della rivoluzione francese, aveva deciso di togliere ceppi e catene agli internati al Bicetre, ospizio per soldati malandati, prigione e asilo per alienati.
Pinel non si limitò a questo gesto, reso eclatante dall’apologetica psichiatrica, ma sviluppò modalità più umane di trattamento dei malati. Egli sosteneva che “i malati mentali, lungi dall’essere gente colpevole, degna di essere punita, sono poveri malati, le cui condizioni disgraziate meritano tutta la considerazione che si deve portare all’umanità sofferente. Si dovrebbe cercare con i metodi più semplici di sanare la loro ragione”.
Umanitarismo d’accatto, secondo Foucault, che non fa che riproporre una continua oscillazione tra bisogno nosografico di catalogare i sintomi e tentazione del ricovero, della costruzione di spazi che, nel contenere, disegnino i confini di quello che dev’essere, per la società tutta, il folle.
Costruzione sociale, il pazzo non potrà che subire su di sé l’aggressione di una società violenta e ghettizzante, incline a considerarlo solo in quanto creazione di una prassi di separazione.
In effetti, la legge Basaglia vedrà i “folli” abbandonare i manicomi in condizioni non così diverse da come li aveva trovati Pinel al Bicetre.
I secoli erano trascorsi invano, i malati continuavano ad essere vittime di una società escludente e violenta.
Se dovessimo chiederci a che punto siamo oggi, cosa potremmo dire? Sicuramente è impossibile accettare una narrazione consolatoria, che guardi al passato come tanto cattivo, solo per esaltare il presente. Questo è il movimento ideologico di tutti i poteri, disposti a sputare sulle proprie memorie al solo fine di salvaguardare l’amato presente e garantirsi un futuro di dominio e prosperità.
Gli abusi in campo psichiatrico non sono terminati, la vita dei malati non sempre è come potrebbe essere.
Qualcosa, però, negli anni è cambiato.
Da tempo si è cominciato a parlare di riabilitazione e ormai sono numerose le esperienze in comunità semiprotette che permettono progressivamente, a coloro che soffrono di disturbi psichici, di reinserirsi nella società attraverso borse lavoro e progetti di vita autonoma.
La ricerca farmacologia è riuscita a mettere in commercio farmaci in grado di limitare i sintomi positivi, limitando i devastanti effetti collaterali dati dai farmaci di prima generazione, anche se non si è ancora trovato un trattamento terapeutico che eviti effetti collaterali disturbanti, quando non pericolosi.
Anche in campo farmacologico non mancano, quindi, le dolenti note.
Per quanto riguarda i disordini affettivi (depressione maggiore e disordini bipolari), i primi farmaci immessi sul mercato sono stati gli inibitori delle monoamminossidasi (MAO-I). Questi farmaci, bloccando gli enzimi che degradano e rendono meno disponibili alcuni neurotrasmettitori (in particolare serotonina, dopamina, norepinefrina), permettono l’elevamento del tono dell’umore.
Dopo 6-8 settimane di trattamento inducono modifiche nel numero dei recettori che vengono attivati dai neurotrasmettitori.
Il problema di questi farmaci è dato dai terrificanti effetti collaterali che possono produrre: cambiamenti nella pressione del sangue, disturbi del sonno, sovralimentazione. L’aumento di norepinefrina causa ipertensione, eccessiva sudorazione, aumento della temperatura del corpo. L’inibizione delle monoaminossidasi nel fegato aumenta la tiramina, un’amina presente in formaggi, carni e altri alimenti. L’assunzione di questi cibi, in concomitanza con il trattamento farmacologico, può causare ipertensione, aumentando la possibilità di ictus, oltre che, naturalmente, mal di testa, sudorazione, nausea, vomito.
Inoltre, l’inibizione di altri enzimi, come il citocromo p450, che degradano barbiturici, alcol, oppiacei, aspirina, ecc, rende l’effetto di queste sostanze più duraturo.
Altri farmaci per il trattamento dei disordini affettivi sono i triciclici, che inibiscono il riassorbimento dei neurotrasmettitori nei neuroni presinaptici.
Questi farmaci hanno, “naturalmente”, degli effetti collaterali: il blocco dei recettori induce sedazione e fatica. Gli effetti anticolinergici inducono secchezza delle fauci, costipazione, ritenzione urinaria, confusione, danneggiamento della memoria, visione offuscata.
Inoltre si possono avere danni cardiovascolari, come ipotensione ortostatica, tachicardia, aritmia.
Un’overdose di questi farmaci può causare depressione cardiocircolatoria, delirio, convulsioni, depressione respiratoria e coma.
Avendo un basso indice terapeutico (prossimità della soglia di massima efficacia alla soglia di tossicità), è problematico somministrare i triciclici ai pazienti che vogliono suicidarsi.
In questi ultimi anni sono stati diffusi sul mercato farmaci di seconda generazione, come il famoso prozac, la pillola della felicità.
Questi farmaci sono più selettivi nell’azione e dovrebbero dare meno effetti collaterali.
Questi bloccano la ricaptazione della serotonina, ma non quello della norepinefrina, per cui causano un minore stato di eccitazione generale.
L’aumento di serotonina in tutti i tipi di recettori causa ansia, disordini del movimento, rigidità muscolare, nausea, mal di testa, insonnia e disfunzioni sessuali.
Inoltre è possibile che la terapia induca la sindrome serotoninergica: agitazione, disorientamento e confusione, atassia, spasmi muscolari, esagerata funzionalità del sistema nervoso autonomo. Questi farmaci danno dipendenza fisica e crisi di astinenza.
Sono in fase di sperimentazione farmaci di terza generazione, che si spera possano minimizzare gli effetti secondari.
I pazienti affetti da disordini bipolari (che alternano crisi depressive a fasi maniacali) sono di solito trattati con il litio, per placare i comportamenti maniacali.
Questo farmaco riduce le manie senza causare depressione. I pazienti in cura con il litio riducono drasticamente i ricoveri, anche se gli effetti secondari sono importanti: disturbi della memoria e confusione e mancanza di emozioni.
Inoltre i livelli di litio nel sangue devono essere costantemente monitorati, perché si possono avere effetti tossici come disfunzione renale, confusione, irritabilità, epilessia, coma, morte.
I disturbi dell’ansia, sono un’altra classe di disturbi riconosciuti dalle classificazioni nosografiche, che da tempo sono target delle industrie farmaceutiche.
I farmaci usati per trattare i problemi di ansia (attacchi di panico, disturbi generalizzati dell’ansia, fobie, disordini ossessivo-compulsivi) non hanno dato meno problemi dei farmaci visti precedentemente.
I barbiturici, in caso di tolleranza possono dare depressione respiratoria. Le benzodiazepine possono dare effetti simili alla demenza negli anziani e possono causare amnesia se assunti in concomitanza con l’alcol.
Benché il rischio di abuso e dipendenza fisica non sia alto, vi sono casi in cui dipendenza fisica e uso cronico possono intervenire.
Inoltre si può avere sindrome da astinenza, con panico, delirio e crisi epilettiche.
Gli ansiolitici di seconda generazione possono ridurre l’ansia dando meno effetti collaterali. Il buspirone tratta anche la depressione e non induce sedazione, confusione e chiusura mentale.
Gli effetti collaterali non sembrano drammatici.
Per quanto riguarda la schizofrenia, i farmaci più usati sono i neurolettici.
Questi bloccano la dopamina, per cui possono causare fenomeni simili al parkinson. Inoltre possono indurre fenomeni di discinesia tardiva, cioè dei movimenti stereotipati (come alcuni tipi di smorfie) che in alcuni casi non scompaiono terminata la cura.
I neurolettici possono anche indurre la sindrome maligna da neurolettici, con febbre, rigidità, coscienza alterata, ipertensione. Questa è’ potenzialmente letale.
La situazione, quindi, sembrerebbe essere disperata per la psichiatria: l’accoglienza e la cura del malato si sono troppo spesso trasformate in contenimento anche violento e sedazione forzata con farmaci potenzialmente letali e comunque in grado di devastare la vita dei malcapitati costretti ad assumerli.
Di fronte a questo scenario è normale che un’intera generazione di rivoluzionari abbia puntato il dito conto l’istituzione psichiatrica e indicato negli psichiatri i diretti responsabili dell’oppressione che i malati soffrivano.
Da mio punto di vista, però, la critica dell’istituto psichiatrico, doverosa quanto quella a tutte le istituzioni autoritarie, ha creduto di dover difendere il soggetto in difficoltà fino ad arrivare a negare la malattia e , con questa, il diritto alla cura.
Non è certo possibile definire terapeutico in farmaco che può indurre il coma, ma resta comunque valido l’atteggiamento scientifico di chi cerca di trovare una cura per un problema in grado di devastare la vita del malato e di chi gli è vicino.
Sappiamo bene che la stragrande maggioranza dei tossicodipendenti assume sostante che inducono abuso e tolleranza, in cerca di un’autoterapia che spesso è (come nel caso di tanti psicofarmaci) invalidante quanto il problema che si cerca di combattere.
Questo è tanto più vero nel momento in cui ci rendiamo conto che l’azione delle droghe di maggior consumo è “simile” a quella degli psicofarmaci, cioè permette una maggiore disponibilità di neurotrasmettitori e, di conseguenza, aumento del tono dell’umore e diminuzione del “dolore”.
Chi si cura sente di non stare bene e questa evidenza va al di là dei problemi nosografici che la classificazione dei disturbi mentali può generare e anche della eventuale critica alla scienza rea di non aver ancora definitivamente esaurito il suo campo di ricerca.
Addentrarsi nei territorio dello scetticismo nei confronti della necessità della ricerca scientifica in campo psichiatrico significa fondamentalmente assumere posizioni che vadano al di là di una denuncia forte delle situazioni di abuso, che possono riguardare la psichiatria, come la scuola e come tutte le istituzioni controllate dai poteri dominanti. La critica di chi, in nome della giustizia, nega la malattia e il diritto alla cura finirà dunque come è finita l’ipostesi della descolarizzazione, la quale ha trovato nella propria proposta stessa il limite che ne ha permesso il superamento, nel momento in cui chi proponeva la fine di una pratica fondamentale come quella dell’istruzione non è stato capace di proporre un’alternativa efficace e praticabile.
L’atteggiamento corretto, a mio modo di vedere, è quello di chi va oltre un luddismo antiscientista, per pervenire alla consapevolezza della necessità di un’autogestione che possa far sì che tutte le strutture sociali possano esprimere la parte migliore di sé, la propria vocazione compiuta, che questa sia la cura, l’educazione, la formazione, il benessere fisico, la competizione sportiva.
Al di là di una posizione politica che cerchi di restituire la scuola agli alunni, la fabbrica agli operai, il diritto alla cura consapevole ai malati, resta solo un ennesimo cono d’ombra, lì dove possono annidarsi tutti gli spiritualismi possibili, con i quali posizioni rivoluzionarie caratterizzate da un implicito dualismo dovrebbero convivere gomito a gomito, condividendone di fatto le posizioni di fondo.
Torniamo al cervello e all’unica possibilità che abbiamo di concepirlo: il cervello è la mente. Rifiutare ogni dualismo significa proclamare un riduzionismo biologico che affermi che la mente, essendo il nostro cervello, è parte del mondo naturale e non è certamente una sostanza metafisica differente dal substrato biologico, per cui la scienza può capirne il funzionamento e, nel tempo, intervenire correttamente per aiutare la persona sofferente, che sia il malato di sclerosi, o il parkinsoniano, il sofferente di alzheimer o il paziente psicotico. Il futuro non può essere ipotecato in nome di una paranoia da persecuzione, va vissuto consapevolmente e, se ne avremo la capacità, costruito in senso sociale ed egualitario, liberi da ogni oscurantismo, anche quello proclamato in nome dei diritti dei più deboli.
Dr. Paolo Iervese
Psicologo Psicoterapeuta Busto Arsizio
Dr. Paolo Iervese Psicologo Psicoterapeuta
Busto Arsizio
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Iscritto all’Ordine degli Psicologi della Lombardia n. 03/14493, dal 14/04/2011
Laurea In Neuroscienze Cognitive, Specializzazione in Psicoterapia Cognitiva
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